Questa settimana rispondiamo ad un lettore anonimo, che ci scrive:
Caro Sergio, […] ti scrivo da una località imprecisata della Sardegna, generosa regione nella quale mi sono rifugiato dopo che la mia bacheca di facebook è stata intasata da foto di balconi innevati, innescando, nella mia coscienza, un ping-pong esistenziale riguardo la ripetizione come forma di cambiamento e la decadenza come rivalutazione del tempo. Ma non voglio rivelare null’altro a proposito del nuovo libro di Fabio Volo. L’esaurimento nervoso che ne è derivato, mi spinge a mantenere l’anonimato. Abbandonare i propri affetti e rinunciare alla propria vita personale è il primo passo per affrontare la vita con attenzione, rispetto, timore e sicurezza, come insegnano gli sciamani, ma in queste terre impervie, gli anziani detentori del potere personale, a parte Benito Urgu, sembrano essersi volatilizzati. Puoi indirizzarmi tu verso la Risposta?
Caro anonimo, dando fondo alle mie innate doti empatiche, ti scrivo con la faccia pixellata e la voce camuffata a causa del membro eretto di Licio Gelli che preme contro le mie gengive. In queste righe ridarò vita al periodo più bello della mia vita, quando, durante gli anni settanta, ero faccendiere della Loggia Massonica Propaganda 2.
In quegli anni, con il benestare delle Fiamme Gialle, il cui esponente più integerrimo seviziava, in una cantina la propria figlia/nipote, la P2 era al suo massimo splendore.
Le manovre eversive e destabilizzanti di cui mi resi responsabile, non possono essere circoscritte ad una dinamica nazionale e politica: la loggia P2 era solo un ganglio di un organismo vivo che si propagava come le cellule di una materia cancerogena lungo i canali ed i crocevia del potere. Esattamente come l’Arsenale (Federazione Siciliana delle Arti e della Musica) e l’etichetta discografica 42 records.
Ricordo ancora con affetto l’uomo responsabile della mia formazione sul campo; la figura di rilievo internazionale da cui ho imparato a sguazzare nella sottile intercapedine fra il senso dello stato e l’intestino retto: il cantante Gianni Morandi. Da lui appresi quel meccanismo (descritto, anni dopo, nella canzone “Banane, lampone”) che sfruttava le debolezze sessuali e giudiziarie dei più alti esponenti della cosa pubblica, tenendoli in pugno e discreditandoli attraverso una dinamica che Morandi descriveva come “macchina della merda”. Un’espressione di rara bellezza che, qualche anno dopo, fu inspiegablmente modificata in “macchina del fango” dal ghost writer di Roberto Saviano.
Ci voleva freddezza, pelo sullo stomaco ed un infimo senso del disgusto. Le stesse qualità richieste per depositare dello sperma nel grembo inospitale di Lady Gaga.
Il sottoscritto possedeva quelle qualità, ma qualcosa, ben presto avrebbe scalfito la fortezza della solitudine che aveva eretto attorno al suo cuore.
Il Maestro Venerabile Licio Gelli, mi aveva incaricato di occuparmi del rientro in Argentina di quello che sarebbe stato acclamato come il futuro presidente Juan Peron, ma che secondo la tessera n°121 era schedato come Giovanni Piras, nato a Mamoiada (Nuoro).
Mi recai lì, in quel paesino dall’aria ferma e misteriosa come un bagno senza finestre. Il futuro presidente Peron, mi accolse senza convenevoli in una stanza scarna e scarsamente arredata. Mi lasciò parlare; gli spiegai quali palle avremmo dovuto strizzare per farlo tornare a Buenos Aires, mentre continuava a guardarmi producendosi in rapidissimi ed inaspettati movimenti dell’iride.
Rimasi attonito ed uscii fuori dal mondo; capii che Piras, in pochi secondi mi avea letto e riletto: aveva percepito la purezza della mia anima sotto i quintali di merda con i quali il cantante Gianni Morandi mi aveva sommerso, aveva intuito la mia completa inettitudine etica al ruolo di faccendiere, mi aveva estorto la ricetta della caponata e mi aveva fottuto la tessera dell’esselunga.
Ne uscii disorientato, ma colmo di uno strano potere che sapeva di rinascita, come dopo tre pastiglie di Tavor dentro uno screwdriver.
Vagai per qualche giorno fra gli altipiani di Mamoiada. Lì incontrai una donna forte e semplice di nome Maria, che attirò la mia attenzione mentre, per rifocillarmi, stavo mungendo una pecora. Era incredibile, sensuale e facemmo l’amore per giorni, mentre Maria ci guardava incuriosita.
Fu lei a farmi conoscere i Mamuthones, figure ancestrali i cui riti sopravvivono ancora oggi a testimoniare la sopravvivenza al male, l’eterna filastrocca che gira attorno attorno al potere personale e a come esso può controllare le forze del mondo e della morte.
Forse per trovare quello che cerchi devi trascorrere la tua nuova vita insieme ai Mamuthones e carpirne i gesti ed i rituali, entrare nella loro cultura millenaria ed imitarne il modo in cui controllano le cose dell’universo; esattamente come sto facendo io con il corso De Agostini per imparare il cinese.
Se non dovessi riuscire a trovare quei Mamuthones, ti auguro di imbatterti in questi.
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6 Comments for La posta di Sergio - Mamuthones
gianfrx
*quali palle avremmo dovuto strizzare per farlo tornare a Buenos Aires*
sposare Evira Peron, no?
sergio
Juan, me lo propose. Io gli dissi “évita”.
vikib
*Juan, me lo propose. Io gli dissi “évita”*
…Peròn
gianfrx
*…Peròn*
birra?
sergio
ahahaauah
Peppe
“Ehi ehi” furono dunque le sue parole, e alle nostre orecchie quell’espressione suonò un po’ troppo alla Fonzie per provenire da un avvocato brizzolato che indossavi calzoni con motivi Madras. “Ehi ehi!” diceva sempre dopo miracoli di questo genere.
pag 69 di “l’opera struggente di un formidabile genio” di Dave Eggers.
*quali palle avremmo dovuto strizzare per farlo tornare a Buenos Aires*
sposare Evira Peron, no?