In un cassetto di un armadio di una stanza non più mia sono riposti alcuni ricordi racchiusi in oggetti dal vissuto quotidiano insignificante.
Una lettera del 2001, un accendino del 1997, un biglietto di treno del 1992.
Nel 1992 i biglietti dei treni erano verdognoli e non più grandi di un accendino, o almeno quelli dei treni locali tipo Cefalù-Palermo, giusto lo spazio per scriverci dietro la data 25 maggio 1992.
Alcuni ragazzi, me compreso, tra i più sfigati del Liceo Classico Mandralisca di Cefalù a quei tempi condividevano gli spazi ricreativi in accese discussioni, maggiormente calcistiche, soprattutto le scanne tra milanisti vincenti e juventini perdenti.
Ma i tempi sarebbero cambiati, Peppe non sarebbe stato più milanista, Martino sarebbe passato al ciclismo e Francesco al supporto del fantomatico Atletico Trinacria ovvero la summa del meglio del calcio siciliano allora galleggiante tra i bassifondi della serie B e l’acqua sporca della serie C.
La Sicilia allora non faceva cronaca per lo sport per intenderci, dunque la scelta di Francesco era raffinatamente masochista poiché in quei giorni faceva solo notizia il noioso quotidiano di assassinii mafiosi.
Ma l’Atletico Trinacria era un pretesto di facciata, e la realtà venne presto fuori, e poco aveva da spartire con gli insuccessi del Messina o del Palermo.
Avevamo un problema, odiavamo politici quali Ciancimino e Mannino e un omicidio su tutti fu così salutato: la Sicilia piange di gioia per la morte di Salvo Lima.
Era quella la Sicilia del 1992 quando il 25 maggio alle ore nove circa con Marzio saltammo sul treno locale per Palermo, direzione piazza san Domenico, luogo in cui si celebravano i funerali per la strage di Capaci avvenuta due giorni prima.
Pioveva di brutto quel giorno, ed il tragitto Stazione Centrale Piazza San Domenico era dai noi vissuto quale viaggio nel viaggio alla scoperta di una terribile città.
Piazza San Domenico sembrava enorme e stracolma di gente, la pioggia non cessava di battere come la cupa rabbia racchiusa nella bestia chiamata folla.
La bestia aveva fagocitato tutto quel poco di Stato mandato in piazza al macello, ricordo Spadolini e Parisi divorati, e lo vidi in piedi su una capote di una macchina della Polizia.
Vidi anche un poliziotto guardarmi in silenzio.
La macchina era attorniata dalla folla lì dove, a due passi, qualche anno più tardi avrei scoperto e vissuto la follia allegra della Vucciria e non più una Piazza Domenico colma di gente ma solo di macchine selvaggiamente parcheggiate così a ridurne la prima triste e magnifica estensione.
Quando seppi della strage di Capaci ragionai in silenzio la punizione adeguata per quei maledetti assassini, oddio chiamiamola pena, ma fui indulgente e coerente nell’escludere sia la pena di morte sia la tortura conformemente ad ogni stato civile.
Ragionai rabbioso una pena simile al regime del quarantuno bis, volevo fortemente i colpevoli.
Qualche anno più tardi vidi i colpevoli di quello schifo, di quello in particolare o di quello in generale poco mi frega, e li vidi in videoconferenza durante alcuni processi.
Prima Giovanni Brusca e poi Salvatore Riina.
Giovanni Brusca mi parve ossequioso e melenso nei riguardi del Tribunale, puzzava di falso e di opportunismo.
Salvatore Riina si dimostrò subito irriverente e oltraggioso, specie con l’accusa, scontava la sua pena e negava tutto.
La malvagità degli autori di quelle orrende stagioni poteva privarci della dignità di essere siciliani.
I nostri morti l’hanno impedito.
Dopo tanti anni, dopo la ” primavera di Palermo” vissi un episodio simile ma opposto. La gente accalcata e appollaiata sulle macchine all’arrivo in questura di Bernardo Provenzano, arrestato qualche ora prima in una masseria di Corleone. Ricordo ancora l’emozione che aleggiava e il sentimento di rivalsa che tutti in quel momento sentivamo.